Cent’anni di tormenti e solitudine. Cosa resta del vecchio Pci
Tre libri per celebrare l`anniversario prossimo venturo. Ezio Mauro, Andrea Romano, Marcello Sorgi e Mario Pendinelli raccontano una storia che non si rassegna a finire imbalsamata nel museo della politica italiana.
di Francesco Cundari – Il Foglio 28 novembre 2020
Cosa spinge tanti autorevoli intellettuali, politici e giornalisti, che nella maggior parte dei casi comunisti non sono stati mai, a tornare ciclicamente sulla storia del Partito comunista italiano, con un’attenzione e una passione non riservate a nessun’altra formazione politica? Non riservate, per esempio, al più antico Partito socialista, dal quale pure prese origine, né alla più grande Democrazia cristiana, che sulle vicende del nostro paese ha avuto un’influenza senza dubbio maggiore. Ecco la prima domanda cui bisognerebbe rispondere, in vista del centesimo anniversario del Pci, nato “Partito comunista dItalia” (diciamolo subito per non doverlo ripetere noiosamente di qui in poi), con quella sigla un poridicola, PcdI, forse perché, a differenza di Mark Zuckerberg alle prese con la creazione del suo “the facebook”, ad Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga nessuno suggerì al momento buono qualcosa di simile al celebre “drop the the”, vale a dire di buttare la “d”, o almeno l’apostrofo. Questioni di araldica a parte, la do- manda si è fatta col passare del tempo sempre più stringente: come mai ancora oggi in tanti sentono l’esigenza di partecipare al dibattito intorno ai cento anni dalla nascita di un partito che non esiste più da trenta? Se lo spettro del comunismo, infatti, ha cessato di togliere il sonno alle cancellerie europee da un sacco di tempo, si direbbe che in Italia, in compenso, lo spettro del Pci continui tuttora a svolazzare per l’aria, o perlomeno per le librerie, più vispo che mai. Ne fanno fede i libri appena pubblicati, con quel tanto di anticipo che si deve all’autorevolezza del festeggiato, il cui genetliaco cade per l’esattezza il 21 gennaio 1921, da Ezio Mauro (“La dannazione”, Feltrinelli), Marcello Sorgi e Mario Pendinelli (“Quando cerano i comunisti”, Marsilio), Andrea Romano (“Il partito della nazione”, Paesi). Il primo, quello di Mauro, è dedicato specificamente all’inizio, cioè alla scissione di Livorno, individuata come prima manifestazione di quella condanna alla divisione che non abbandonerà mai la sinistra, ed è scritto nella forma di un vero e proprio reportage storico dal luogo del delitto. Il secondo, quello di Sorgi e Pendinelli, abbraccia l’intera storia del partito, nello sforzo di ricongiungere in un unico racconto le prime origini del comunismo italiano, nella Torino del 1911, ai tempi dell’esposizione universale e dell’impresa libica, fino alla svolta di Achille Occhetto e oltre, proiettandosi fino ai giorni nostri. Il terzo, quello di Romano, si pone in un certo senso a valle di questo percorso, per tracciarne un bilancio che ha già nel titolo (“Il partito della nazione”) la soluzione del caso. Titolo che contiene ovviamente una provocazione, richiamando immediatamente la formula – coniata e successivamente disconosciuta da Alfredo Reichlin – con cui per una breve stagione il Partito democratico di Matteo Renzi immaginò di poter consolidare quel ruolo centrale (e secondo alcuni pure centrista) che il clamoroso 40 per cento raccolto alle elezioni europee del 2014 sembrava promettergli. Prima di proseguire, sarà bene però sgomberare il campo da una possibile obiezione. Mi riferisco all’eventualità che tutte queste elucubrazioni appaiano il frutto di una sorta di deformazione professionale, giornalistica o politica, come fossero ispirate cioè da un’ansia smodata di attualizzare e trascinare nei talk show anche quello che andrebbe lasciato nei musei. Ebbene, a fugare ogni sospetto di forzatura al riguardo dovrebbe bastare la polemica innescata a sinistra appena lo scorso 22 novembre – polemica ancora aperta, beninteso, e in cui sono intervenuti con fervore fior di ministri dell’attuale governo – dalla seguente dichiarazione di Renzi alla trasmissione “Mezzora in più”, che per comodità riporto nella forma del tweet pubblicato sul suo profilo: “Nel 2021 celebreremo l’anniversario della scissione di #Livorno con un grande evento con tanti giovani, dove inviterò Tony Blair. Perché la sinistra o è riformista o perde e la vittoria di @JoeBiden lo dimostra”. E con questo, per quanto riguarda l’attualità della materia, direi che la tesi può essere data per dimostrata. Per chi invece fosse interessato all’aspetto più strettamente storiografico e memorialistico, vanno segnalate almeno un paio di iniziative. La prima è il convegno della Fondazione Gramsci “Il comunismo italiano nella storia del novecento”, svoltosi dal 12 al 14 novembre scorso, i cui materiali audiovideo sono ancora consultabili sul sito (fondazionegramsci.org). La seconda è un libro opera del collettivo di ex giornalisti dell’Unità che anima il sito Strisciarossa.it (da dove è possibile acquistarlo), “Care compagne e cari compagni – storie di comunisti italiani”, dove ogni capitolo è dedicato alla vita di un militante del Pci: dalloperaio “a capo dei comunisti di un pezzo della immensa Mirafiori a Torino, la Carrozzeria”, Antonio Gallara, intervistato e raccontato da Bruno Ugolini, a Rosolino Cottone, il partigiano raccontato (e intervistato tanti anni fa) da Vincenzo Vasile. Senza dimenticare le magnifiche vignette di Sergio Staino e di Ellekappa, i cui personaggi inconfondibili ci riportano subito al tema che avevamo appena lasciato. “Il Pci è morto affinché la sinistra potesse sopravvivere”, dice il primo. E l’altro: “Poi invece cosa non ha funzionato?”. Molte cose non hanno funzionato in quel momento decisivo, nel passaggio dal Pci al Pds. E basterebbe a dimostrarlo il fatto che le date di nascita dei due partiti coincidono quasi perfettamente -21 gennaio 1921 il primo, 3 febbraio 1991 il secondo – eppure al trentesimo anniversario dalla nascita del Partito democratico della sinistra nessuno ha pensato di dedicare grandi cerimonie. Ma cominciamo da quello che invece ha funzionato. Mi riferisco a quell’attenzione maniacale alla propria autostoricizzazione che sin dall’inizio caratterizzò il gruppo dirigente comunista. Palmiro Togliatti per primo voile sempre personalmente curare, graduare, sistematizzare la riflessione pubblica su ogni singolo passaggio di quella vicenda (piegandola non di rado, anzi praticamente sempre, alle esigenze politiche del momento, ma avendo anche lo scrupolo di preservarne e tramandarne a ogni costo il patrimonio documentario). Una tale consapevolezza era già evidentissima nelle famose tesi di Lione, elaborate da Gramsci in stretto raccordo con Togliatti per il terzo congresso del PcdI, nel gennaio 1926, con cui il nuovo gruppo dirigente prese definitivamente la guida del partito, emarginando Amadeo Bordiga (a lungo anche dalla memoria e dalle storie di partito), che fino ad allora lo aveva guidato. E lo aveva fatto su una linea decisamente radicale, fino a scontrarsi con Mosca e direttamente con Lenin, che gli aveva dedicato alcune non benevole citazioni nel suo celebre pamphlet “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”. Molto è già stato scritto sulla vulgata che in pratica faceva nascere il Pci a Lione, da un gruppo dirigente presentato – tramite la figura di Gramsci – come custode legittimo della migliore tradizione nazionale (la famosa genealogia De Sanctis-Labriola-CroceGramsci). Operazione che da un lato rimuoveva la posizione centrale di Bordiga e il ruolo decisivo di Mosca nella sua esautorazione, dall’altro oscurava il successivo contrasto dello stesso Gramsci con il gruppo dirigente sovietico, e con Togliatti, agli albori dello stalinismo, per ridisegnare una perfetta linea di continuità, all’insegna dell’autonomia nazionale del Pci e del suo radicamento nella storia dItalia, che in ultima analisi puntava a presentarlo come l’ultimo erede non solo della tradizione del socialismo italiano (mentre il Psi era vivo e vegeto, peraltro), ma addirittura del meglio della tradizione filosofica e politica dell’Italia liberale. In tanta appassionata cura per l’albero genealogico, in tale continuo sforzo di accreditare la nobiltà dei propri natali e i conseguenti titoli di discendenza, sta forse il vero segreto del Pci e della sua straordinaria persistenza nel dibattito politico-culturale, e certamente la principale differenza rispetto a ciò che è venuto dopo, a partire dagli anni novanta. Com’è evidente dalla semplice constatazione che oggi i partiti gli anni se li calano. Allora, come si è visto, se li aumentavano. Certo nessuno oggi prende per buona, in blocco, la ricostruzione della vicenda del Pci come di un processo perfettamente lineare, dettato da un’inflessibile necessità storica. Non per niente il primo capitolo del libro di Romano si apre con le sconsolate parole pronunciate da Gramsci di ritorno dal primo congresso – “Livorno, che disastro” – ricordate da Camilla Ravera. E pochi anni dopo, nel 1924, sarà ancora Gramsci a scrivere: “Fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana”. E certo ha ragione Mauro nel sottolineare l’incredibile rimozione del problema del fascismo da tutti o quasi tutti gli interventi pronunciati al congresso di Livorno, a dimostrazione di quanto la cecità dinanzi all’imminente catastrofe, che avrebbe portato il movimento operaio a dividersi tanto aspramente proprio quando più che mai avrebbe dovuto compattarsi, non colpiva solo i comunisti. E tuttavia quell’idea di una continuità politica e culturale, indistruttibile perché intimamente collegata alla storia del paese, e non solo alle masse popolari, mostra una straordinaria capacità di sopravvivenza. Da questo punto di vista il più netto è il libro di Sorgi e Pendinelli, che fondamentalmente individua proprio nel pensiero di Gramsci, affidato ai Quaderni del carcere, il tesoro che nelle abili mani di Togliatti frutterà fino al punto di fare del Pci il più forte partito comunista d’occidente. E il paradosso da cui parte anche Romano: “Il fallimento conclamato del comunismo mondiale e l’autoestinzione del Pci hanno lasciato dietro di sé una vicenda storica nella quale ancora oggi si specchia la nazione italiana”. Nella convinzione che al fondo la storia del Pci sia stata anche la storia della nostra nazione. “O meglio, una delle storie della nostra nazione” (qui Romano sta parafrasando Gramsci, secondo il quale scrivere la storia di un partito avrebbe voluto dire scrivere la storia del paese da un punto di vista monografico).
Una storia in cui “ritroviamo il passaggio dal ribellismo d’inizio Novecento alle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza, in parallelo alla trasformazione di un partito rivoluzionario, che anche di quel ribellismo era figlio, in un partito che si fece sentinella delle nuove istituzioni democratiche sin dalla loro fondazione e poi lungo tutti i passaggi più drammatici della repubblica”. E che ora – si potrebbe aggiungere in polemica con lo stesso Romano, parlamentare del Pd – sembra rifare la stessa strada al contrario, attraverso l’abbraccio con il grillismo, verso il “ribellismo” e il sovversivismo da cui era partito. Certo è che quell’evoluzione non fu incontrastata. E anzi, in un certo senso, è la battaglia attorno a questo specifico tratto della storia della sinistra a non essere mai venuta meno, e ad accenderne il dibattito ancora oggi, in qualche modo sotterraneo. Dice Mauro in un’intervista al Venerdì a proposito del suo libro, che Repubblica è stata anche “il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana”. E che “in questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista!”. E probabile che per i più giovani una simile accusa – l’accostamento dellex direttore del principale quotidiano progressista del paese a un partito durato lo spazio di un quinquennio ed estintosi nel 1947, quando lui non era neanche nato – sia ormai del tutto incomprensibile. Per intenderlo si potrebbe provare a ridisegnare l’intera storia della sinistra lungo due linee parallele. Da un lato il filone di cui abbiamo parlato finora, che va dal Gramsci dei Quaderni al Togliatti della svolta di Salerno, dell’amnistia ai fascisti e del voto a favore dei patti lateranensi in Costituente, e arriva fino al Berlinguer del compromesso storico (che proprio alla strategia togliattiana dell’unità antifascista si richiamava esplicitamente); dall’altro la riscoperta del giovane Gramsci (il Gramsci “rivoluzionario”, contro Togliatti e il togliattismo) da parte dell’estremismo degli anni Sessanta; le battaglie spesso minoritarie ma destinate a una grande fortuna postuma di quei partiti della sinistra laica, a cominciare dal Partito dAzione, che già non volevano saperne del governo Badoglio e del compromesso con la monarchia nel 44, per non parlare di quello con la Chiesa; fino allultimo Berlinguer, quello cioè della diversità e della questione morale, parola d’ordine non per nulla lanciata proprio in un’intervista a Repubblica, nel 1981. Al primo filone (il Gramsci dei Quaderni, il Togliatti dell’unità antifascista e il Berlinguer del compromesso storico) si richiamava in qualche modo, per legittimarsi, l’ultimo gruppo dirigente del Pci (e del Pds, e dei Ds) al momento di chiudere il cerchio di un così lungo sforzo unitario incontrando gli eredi della Dc non più in una semplice coalizione, ma in uno stesso partito. E così, infatti, il Partito democratico era stato inizialmente concepito al convegno di Orvieto del 2006, aperto non per nulla dalle relazioni di due storici, uno per parte: Pietro Scoppola, per i post democristiani, e l’allora vicedirettore dell’Istituto Gramsci, Roberto Gualtieri, per i postcomunisti (più una terza relazione del politologo Salvatore Vassallo in quota ulivista, che con qualche forzatura potremmo iscrivere come rappresentante della corrente azionista). Questo supremo sforzo di inserire persino il Pd all’interno di quella complicata e al tempo stesso fin troppo lineare genealogia sarebbe stato momentaneamente sommerso dalla scelta di fondare il partito attraverso primarie all’americana, con lincoronazione di Walter Veltroni. Ma bene o male, come la cronaca, i retroscena e le polemiche politiche hanno regolarmente testimoniato, l’idea che alla fine dei conti si trattasse sempre della “vecchia ditta” ha resistito a lungo. Come a lungo hanno resistito i suoi titolari. Sta di fatto che ormai, dopo la stagione renziana e le successive scissioni, con la fuoriuscita di nomi del calibro di Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, il filo della trasmissione ereditaria dei gruppi dirigenti è stato spezzato. Più di venti anni fa, quando ero un giovane militante di sinistra, ricordo che Giuseppe Chiarante venne in sezione a presentare un suo libro sulla storia del Pci e i primi passi del Pds intitolato “Da Togliatti a D’Alema” (Laterza). E nessuno ci trovò nulla di strano. Voi domani lo comprereste un libro intitolato “Da Gramsci a Speranza”? Ma c’è una seconda ragione che spiega perché, paradossalmente, i tanti riconoscimenti di oggi sono probabilmente la testimonianza di quanto la storia del Pci sia ormai davvero cosa morta e sepolta. Perché fino a ieri un filo, sia pure esile e pieno di contraddizioni, non legava solo la storia dei dirigenti, ma anche quella delle idee e delle battaglie che avevano portato avanti, e permetteva ancora e nonostante tutto, se non altro agli storici più benevoli, di raccontarla sempre da capo senza che perdesse completamente di significato. Perché bene o male un senso – diciamo una direzione – ce l’aveva, e non era difficile rintracciarla, dal partito rivoluzionario, settario e antidemocratico delle origini fino allo sbocco nella sinistra democratica europea, in una evoluzione lenta, contrastata e contraddittoria, ma che osservata da altezza storica conserva una certa linearità. Una coerenza di fondo che non è stata spezzata dagli occasionali sbandamenti in un senso o nell’altro: la subalternità all’estremismo liberista” della sinistra europea e americana degli anni novanta di cui parlano Sorgi e Pendinelli (e ormai praticamente tutti), o il riflusso su posizioni populiste, antipolitiche e giustizialiste a cavallo tra anni Ottanta e Novanta (di cui si parla molto meno). Così la stessa avventura renziana alla guida del Pd, con tutto il suo blairismo tardivo, stava pienamente dentro quella vicenda (ed è clamoroso che ad accusarlo di averla snaturata siano stati proprio quelli che a suo tempo, a braccetto con Bill Clinton e Tony Blair, su quella strada lo avevano preceduto con impaziente entusiasmo). E invece la regressione verso il populismo, per giunta nella versione più truce, e primitiva dei Cinque stelle, con l’implicita abiura di tutto quel percorso, con lo smantellamento di quanto restava del suo significato e della sua leggibilità come evoluzione storica e politica, a rendere ormai impossibile qualunque ulteriore accanimento storieistico. Insomma, adesso è proprio finita. E ognuno può trarne la lezione che crede, per la sinistra e per lItalia, individuandola dove più gli aggrada: nell’esigenza di ricominciare da capo, ancora una volta, “ripartendo da Gramsci” (come concludono Sorgi e Pendinelli); nella riscoperta di alcuni punti fermi di una cultura politica che aveva introiettato il valore di un certo senso di responsabilità nazionale, oltre che un’antica passione per il rigore intellettuale e la precisione del ragionamento (e non stupisce che il parlamentare democratico Romano, difensore della strategia dell’abbraccio con i Cinque stelle, ne avverta tanto la mancanza); nella capacità di superare la dannazione della divisione interna che da Livorno in poi ha tormentato la sinistra italiana (Mauro). Ma forse la vera lezione è un miscuglio di tutte e tre queste considerazioni. E la lunga parabola raccontata fin qui, se dimostra qualcosa, dimostra anzitutto che quando la sinistra dimentica le sue radici popolari e la questione sociale, concentrandosi esclusivamente sulla lotta per i diritti, si può trasformare rapidamente in un club di zelanti professori di liberalismo senza più rapporto col popolo; ma quando in nome del popolo e della questione sociale rinuncia ai diritti, apre la strada al fascismo. Non è questo, al fondo, quello che il partito di Gramsci e Togliatti apprende sulla propria pelle, come un imprinting, all’atto stesso della sua nascita? Non è da qui che origina quell’antica ossessione per l’unità nazionale, la diffidenza per ogni forma di estremismo e sovversivismo, il rifiuto persino estetico tanto verso il ribellismo plebeo quanto nei confronti della posa moralistica, intransigente, minoritaria (forse anche “azionista”, nel senso spregiativo in cui probabilmente lo intendevano gli anonimi accusatori di Mauro)? La prima lezione di un simile corso, all’inizio degli anni Venti, dovette essere certamente indimenticabile. In un mondo che presenta già tante analogie con quella cupa stagione, speriamo che non si perda anche l’eco di quel duro insegnamento.