C’era una volta… il GID (Gruppo interparlamentare delle donne)
di Romana Bianchi
C’era una volta… erano i giorni di aprile /maggio 1983. Si discuteva di liste e programma dopo la fine anticipata della VIII legislatura. Tra le proposte programmatiche, ne fu avanzata una particolarmente importante per affermare autonomia e responsabilità delle donne elette nelle liste del PCI
Responsabile nazionale delle donne comuniste era Lalla Trupia.
La proposta, che Lalla aveva formulato, era quella di una organizzazione autonoma delle donne elette nel Parlamento italiano, nelle liste del PCI, organizzazione che andava ben al di là di un semplice coordinamento. Doveva avere una specifica collocazione nei gruppi parlamentare. Man mano che l’idea veniva affinata, Lalla ne discuteva con i dirigenti del PCI: che cosa doveva essere, come poteva agire, con quali poteri. La proposta arrivò sul tavolo del segretario Enrico Berlinguer. E d lì si aprì una discussione radicalmente innovativa, inaspettata .Berlinguer apprezzò quella ipotesi, anzi ne allargò. struttura e confini fino a profilare un gruppo solo di donne che andasse oltre la costituzione di un gruppo all’interno dei gruppi parlamentari. L’ipotesi che Berlinguer formulò era di costituire, alla Camera e al Senato, due gruppi autonomi di donne elette nelle liste del PCI, sul modello di quelli della sinistra indipendente. Dirompente è un termine che rende ben poco l’idea del clima, della discussione che si sviluppò intorno a questa idea: era la rottura della unità stessa del partito nelle sedi istituzionali, era l’inizio di una forma partito che riconosceva alle donne piena autonomia per superare formalità, incrostazioni, luoghi comuni che ancora ci attraversavano e che ostacolavano il cammino, complicato, delle donne per i diritti e le libertà.
Se le critiche, più o meno esplicite , di chi vedeva in quella proposta un tratto persino eversivo della nostra struttura di partito, erano scontate, quello che Enrico Berlinguer si trovò a fronteggiare fu il no di Lalla e, con lei, di molte di noi candidate alla Camera e al Senato.
Un no deciso. Certo eravamo, Lalla in particolare, orgogliose del riconoscimento del nostro ruolo, di ciò che avevamo fatto in quegli anni, ma motivate a dire no per ragioni diverse da quelle di chi vedeva intaccata struttura e funzione del partito. Noi che ci battevamo per la nostra autonomia, che aprivamo conflitti sulle leggi, sulle proposte tutte, volevamo cambiare proprio quel partito, quei gruppi, il loro modo di organizzarsi , di agire, volevamo stare in un partito che diventasse, sempre più, di donne, non solo di uomini. E ci sembrava perciò sbagliato abbandonare la casa comune, se pur spesso inospitale. Ci sembrava triste immaginare un gruppo tutto maschile, grigio, con qualche sprazzo del bianco delle camicie, senza i nostri colori, le nostre proposte, i nostri conflitti.
Berlinguer non accettò volentieri il nostro no, incomprensibile per chi, come il nostro segretario, vedeva tutte le difficoltà alla piena affermazione dei nostri diritti, ad operare quelle rotture che potevano davvero segnare l’inizio di una nuova stagione per le donne e quindi per uomini e donne. Berlinguer sapeva bene dove e quali erano le resistenze, quali le ipocrisie delle affermazioni formali e delle pratiche politiche. Valga per tutto sottolineare la patetica ricerca di una donna da mettere nelle liste, in una qualsiasi presidenza come se fosse la ricerca affannosa di qualcuno o qualcuna che non cammina, lavora, gioisce, si rattrista nello stesso orbe terraqueo. Riteneva che una innovazione di quella portata sarebbe stata salutare, avrebbe messo in discussione, dalle sue fondamenta, una società e un potere maschile.
Fu giusto il nostro no? Penso che abbiamo fatto una scelta difficile, ma le motivazioni da cui nasceva erano dentro la nostra stessa idea di far vivere un partito di donne e di uomini. Resta, purtroppo, un traguardo lontano, ad anni di distanza.
Sarebbe interessante, anche se questa non è la sede, esaminare le motivazioni portarono Berlinguer ad avanzare quella proposta. C’era sta la campagna referendaria per confermare la legge 194, si erano consolidati, nella realtà del nostro paese, i movimenti femministi, le lotte delle donne per i diritti sociali e civili, scritti nelle leggi, molto meno nella realtà.
In quel tempo difficile, segnato dal terrorismo e dalle stragi, le lotte delle donne davano fiducia, indicavano obiettivi che avevano bisogno di forti idealità, di grandi passioni e di altrettanto grandi scelte politiche.
Enrico Berlinguer sapeva leggere una realtà in fermento, sapeva che era il tempo di una necessaria,anzi urgente innovazione politica, come aveva scritto in un bel saggio su Rinascita. (1982) E vedeva la forza delle donne per quel che era ed è: una forza che cambia il mondo.
Accantonata l’idea di un gruppo parlamentare indipendente, Lalla, e noi con lei, lavorammo per far vivere una organizzazione delle donne, in Parlamento, con fisionomia e poteri specifici.
Costituimmo il Gruppo Interparlamentare delle donne elette nelle liste del PCI-GID.
L’adesione era volontaria. Il GID aveva un suo finanziamento, una pubblicazione periodica “Donne,parlamento,società.
Furono elette tre responsabili :
La sottoscritta alla Camera
Ersilia Salvato al Senato
Laura Balbo per la Sinistra Indipendente.
Già l’aggettivo Interparlamentare aveva suscitato,alla Camera, nella Presidenza del gruppo, continue discussioni su poteri, sul nome stesso perché si profilava come un gruppo troppo autonomo. E questa dibattito fa ben capire come era stata accolta la proposta del segretario, quali erano perplessità e contrarietà che serpeggiavano e trovavano forma , diciamo che venivano allo scoperto, quando esercitavamo i “poteri” riconosciuti.
Il GiD doveva esprimere parere obbligatorio su tutte le proposte di legge, emendamenti del gruppo; il suo parere era vincolante, per tutti gli eletti e le elette, quando era formulato a proposito di leggi che riguardavano la condizione delle donne.
Quando si discusse sulla posizione del gruppo, a proposito di come procedere contro il reato di violenza sessuale, se a querela o d’ufficio, la posizione del Gid divenne vincolante per tutto il gruppo. Allora sostenevamo la procedura d’ufficio e, nonostante obiezioni e perplessità, il gruppo accettò la nostra indicazione. Non certo pacificamente, le varie accuse avevano un minimo comun denominatore, cioè quello voler stravolgere le regole democratiche.
Non so se eravamo un po’ rozze, un po’ velleitarie: tutto può essere, ma di una cosa eravamo convinte, e cosi resto, occorreva accelerare il cambiamento politico e occorreva farlo con le donne, dentro e fuori dalle istituzioni che non accettavano più le mediazioni tutte maschili su ciò che mutava nelle idee, nel costume, nelle pratiche politiche fra donne. Il paternalismo maschile, se così vogliamo chiamarlo, che ci spiegava cosa era bene o male per noi donne, era insopportabile.
Ci scontrammo per cambiare linguaggi, contenuti, per far valere la forza delle donne contro vecchi e nuovi stereotipi. Sul lavoro, sulla introduzione della educazione sessuale nelle scuole, sulla editoria femminile, su temi così diversi avanzammo proposte, aprimmo dibattiti non facili. Ci misurammo con prese di posizione che non trovavano consenso nei dirigenti del gruppo, ma sentivamo necessarie e coerenti alle elaborazione che maturava nel continuo confronto con le donne nella società, nelle organizzazioni, nei movimenti.
Un banco di prova di quel che volevamo e che spinse Lalla Trupia, e noi con lei, a proporre il Gid, furono le dimissioni di Angela Bottari da relatrice delle proposte contro la violenza sessuale.
Era il gennaio 1983. Terminata la discussione generale, si votavano gli emendamenti, in aula, in un silenzio, che ricordo molto pesante. Inaspettatamente- pensavamo che lo scontro sarebbe avvenuto più avanti- era stato approvato un emendamento di alcuni parlamentari Dc ,primo firmatari Carlo Casini, che manteneva le norme del reato di violenza tra quelle contro la morale e non lo spostava tra quelli contro la persona. Era il cardine di tutta la possibile, nuova legge. In quel silenzio, Angela si alzò e si dimise da relatrice. Presiedeva Nilde Iotti. Quello che seguì fu un vero putiferio. Le critiche pesanti furono accantonate quando, pochi giorni dopo, ci fu una manifestazione di migliaia di donne che da tutta Italia si trovarono con noi per chiedere che quel testo fosse radicalmente cambiato.
Da lì, e non solo, una elaborazione politica che portò al Gid.
Autonomia. Non fu facile praticarla, ma sentivamo che li stava il passaggio necessario per cambiare le leggi e la loro concretizzazione, per vivere una stagione che portasse il segno delle pari opportunità, perché non ci sentissimo, più ospiti, ma protagoniste nelle istituzioni e nella società.
Autonomia. Vuol dire aprire conflitti, voleva dire scontrarci tra noi e con gli uomini del nostro partito,vuol dire però far crescere consapevolezza comune, allargare i contenuti e le forme della democrazia, resa più viva da chi la abita, e chi la abita nella quotidianità sono donne e uomini, nella quotidianità e nelle istituzioni.
Questo cercavamo di fare in un continuo confronto, non facile, con tante donne nelle nostre sezioni, nel sindacato, nelle organizzazioni sociali, nelle assemblee pubbliche, nel confronto/scontro, con donne dei movimenti femministi.
Molto ricco era l’intreccio di proposte e di conflitti con le altre donne parlamentari. Con le elette nella Dc, nel PSI, nel PSDI, con le radicali. Un altro mondo sicuramente rispetto ad oggi, un mondo che cercavamo di abitare con autonomia e forza.
Nel 1986 Livia Turco era diventata responsabile delle donne comuniste.
Con Livia continuò il nostro lavoro autonomo. Affrontammo la decima legislatura proponendo il riequilibrio della rappresentanza. Alla Camera le donne elette furono il 39% di tutto il gruppo. Iniziava una stagione politica in cui erano messi in discussione i contenuti politici e,insieme all’esigenza di eleggere più donne , ci si incontrava e cinsi scontrava con quella di rinnovare i gruppi dirigenti, gli eletti in Parlamento.
Erano gli anni che portarono alla scrittura della Carta delle donne comuniste. Anni di dibattiti con le braccianti, le intellettuali, le femministe, le donne organizzate nei sindacati, nei movimenti ambientalisti, nel nostro partito…
Esercitammo la nostra autonomia cercando di avanzare proposte su temi “nuovi”che finalmente trovavano parole pubbliche, che finalmente attraversavano le nostre vite fuori dal buio in cui sin cercava ancora di ricacciarli: da quello delle unioni omosessuali a quello della fecondazione assistita a quelli legati all’ambiente.
Nel 1989 con la proposta di Achille Occhetto, eletto nel 1988 segretario del PCI, di cambiare nome, simboli, contenuti tutto cambiò.
Cambiò il Gid che visse una altra stagione.
Riflettere su quella esperienza, oggi, servirebbe e non sarebbe una operazione Nostalgia. Sarebbe, è, l’urgenza di provare a far vivere la memoria: radice di quel che siamo e capacità di capire scarti, difficoltà, successi di un percorso, quello delle donne, accidentato fin che si vuole, ma capace di cambiare il mondo. Dentro quel percorso abbiamo cercato di esserci, con una piccola esperienza certo, ma cercando di far vivere l’autonomia delle donne per la propria libertà e perciò per sconfiggere disparità e diseguaglianze che negano risorse, limitano opportunità , impoveriscono tutti e tutte. Ottimiste o presuntuose o velleitarie? Forse tutto, sicuramente con l’ambizione di esserci con la inarrestabile forza di chi sa che il mondo cambia in meglio se le donne saranno protagoniste per sè, per tutte e tutti.