Lo sport nei 100 anni del PCI

di Angelo Carotenuto – Slalom week-end, 17 gennaio 2021

Qualcuno era comunista perché credeva
di poter essere vivo e felice
solo se lo erano anche gli altri

Giorgio Gaber

 

hGENIaTvOyiaASOiDyJOD0DYtW3n3n24SD5vBy3lYIzBSuDpxtJq748VLIHetaDFq_MYwlnuHPkJgi1vxbflIEk--6_O5a5itHM0nIgjebwVPxzQXM_JZINN-Ijr_dLwrMFFB_RT   Il giorno prima che nasca il PCI, nel calcio italiano tira aria di sciopero.
“Uno sciopero di nuovo genere” lo chiama il Corriere della sera.

Gli arbitri.
Vogliono  fermarsi.
Quelli del calcio, scrive il quotidiano ancora per una decina di mesi diretto da Luigi Albertini, “sono i più popolari fra tutti e pagano molto spesso caro questa loro notorietà. L’arbitro del foot-ball (per i digiuni di sport) è il dirigente della partita: colui che segue minutamente la condotta dei singoli giuocatori, che infligge punizioni, che omologa i punti. Egli dovrebbe essere riconosciuto come l’autorità massima ed indiscutibile sul campo. Accade invece sovente che nella irruente contesa delle due squadre in lotta e tra gli opposti pareri del pubblico che assiste e parteggia, la massima autorità corra pericoli non soltanto morali, tali da compromettere non solo la sua dignità ma anche la integrità della sua persona. In seguito al ripetersi di questi incidenti l’Associazione italiana degli arbitri ha deliberato come forma di protesta l’abbandono dei campi calcistici”.
Gli arbitri se ne vanno.
È successo che la domenica prima ci siano stati degli incidenti, tutti concentrati in Lombardia. A Saronno, a Treviglio, a Como.

Fa un certo effetto, proprio stride, questa determinazione in uno sport che le cronache dell’epoca mostrano per il resto ingenuo e candido. Uno degli eventi più attesi è la gara di tiro al piccione a Montecarlo, in programma dall’1 al 3 febbraio, con premi complessivi di 200 mila franchi. Per informazione di dettaglio – scrivono i giornali – rivolgersi alla agenzia Chiari-Sommariva di Milano. A Roma si corre il GP d’inverno per motocicli e automobili “con tempo incerto e strade malagevoli” annota il Corriere. Oppure c’è questa marcia, la prima marcia sciatoria popolare, con 180 persone che se ne vanno al Piano di Bobbio, sopra Barzio, in Valsassina. Costante Girardengo è il più grande campione che ha l’Italia in quel 1921, anzi il Campionissimo, come lo chiamerà il prossimo direttore della Gazzetta dello sport, Emilio Colombo. Ha già vinto uno dei suoi due Giri, una delle sue sei Sanremo e uno dei suoi tre Lombardia. Nei giorni in cui l’ingegnere napoletano Amedeo Bordiga guida la corrente degli astensionisti del PSI fino alla scissione, Girardengo è all’estero, sta correndo a Parigi L’Americana degli assi, al Vélodrome d’Hiver, tra boulevard de Grenelle e rue Nelaton, quindicesimo arrondissement, vicino alla Torre Eiffel. Forma con Giuseppe Olivieri, terzo alla Sanremo due anni prima, una delle otto coppie in gara. Non la migliore. Svetta semmai un tipo conosciuto come i tanti eterni secondi, Gaetano Belloni, in coppia con Orlando Piani, un romagnolo che si costruirà gran parte della carriera tra le Sei Giorni degli Stati Uniti, correndo con una papalina nera in testa per nascondere la calvizie. Piani vincerà 9 sprint su 11, Belloni sarà mezzo speronato dal francese Maurice Brocco. L’accento sulla o.

UOl2Zdqe1YJmXQYqFlq_0ZB340CifR3ZHuc6Dyelr2Pb5InbevKQhcXazJ-GlnIUCnKVr8Guo30w-CpJr2oy1Ev4q6xqVIscGpRyNKkhZTstk6o1PAD_4b4bMeHiqOUOvQ0Aul3S La Livorno in cui nasce il PCI ha una gran squadra di calcio, campione centro-meridionale l’anno prima e battuta nella finale scudetto dall’Inter per 3-2, giocando in 10 per quasi tutta la partita. Venti giorni prima dell’arrivo della falce col martello, il Livorno ha compiuto già una prima impresa proletaria battendo a Capodanno in amichevole per 2-0 il Madrid Foot-Ball Club, al quale il sovrano Alfonso XIII ha appena conferito il titolo di Real. Non esiste ancora un campionato nazionale ma quel Madrid ha già vinto otto titoli Regional Centro e cinque Coppe del re.

Formazione storica del Livorno che ha forte il cuor e il piede nel colpir: Jacoponi I – Innocenti, Baratella – Collaveri, Nigiotti, Bargagna – Paron, Magnozzi, Mozzachiodi, Jacoponi II, Anichini. Scrive la Toscana Sportiva che Jacoponi II “da circa 40 metri tira un calcio potente e il pallone è indirizzato verso la rete di Hernandez dentro la quale entra pacificamente per l’errato piazzamento del portiere”. Nessuna informazione sull’ipotesi che facessero o no densità nel mezzo. Al campo di Villa Chayes “in mancanza del servizio tranviario, sono venuti di città con il cavallo di S. Francesco”.

Nelle ore in cui il PSI si sta spaccando, succede la stessa cosa nella stampa sportiva regionale. Il Livorno ha vinto cinque giorni prima per 4-2 a Viareggio l’ultima d’andata del girone e il Gazzettino Rosso Nero locale ha contestato la ricostruzione della cronaca fatta nel capoluogo dalla Toscana Sportiva. Che rintuzza e replica. “Il Gazzettino Rosso Nero – scrive la firma del pezzo sulla partita – mi ha concesso l’onore di ricordarmi diverse volte nel suo ultimo numero del 16 gennaio apostrofandomi direttamente e con maniera non certo molto cavalleresca anche indirettamente”.

Interviene anche con una nota la redazione – e qui si nasconde la notiziona. “Ci rendiamo completamente solidali – si legge – con la nostra valente e sempre imparziale collaboratrice di Livorno, la quale, valendosi di quella indipendenza che è la nostra forza maggiore, ha sempre espresso i propri giudizi con serenità dimostrandoci quella competenza che ci rendono la sua collaborazione veramente preziosa. Raccomandiamo agli amici rosso neri un po’ più di calma e serenità… e amici quanto e  più di prima”.

Esatto. Nel 1921 – un secolo fa – di calcio da Livorno scrive una donna.
Si chiama Marie Delle Rose. La pioniera più pioniera di tutte.
(Per chi si è appassionato: gli arbitri alla fine non scioperarono più).

Il calcio dentro il PCI

Che cosa Antonio Gramsci pensasse del calcio, anzi del football, l’aveva scritto già tre anni prima dell’atto fondativo del PCI, alla guida del quale sarebbe arrivato nel 1924. Nelle rubriche di costume tenute per l’Avanti, e raccolte negli anni Sessanta da Einaudi nel volume Sotto la Mole, il leader comunista invitava gli operai a frequentare lo stadio. Il mondo del calcio, ai suoi occhi, era l’espressione della modernità. Quel suo celebre intervento portava un titolo con una sua forza evocatrice, Il Football e lo scopone.

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Una partita allo scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o… del complice. Lavorio perverso del cervello (!). Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia da luogo a luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazioni e di litigi. La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si è mai letto che in tal modo si sia mai conchiusa una partita di foot-ball. Anche in queste attività marginali degli uomini si riflette la struttura economico-politica degli Stati. Lo sport è attività diffusa delle società nelle quali l’individualismo economico del regime capitalistico ha trasformato il costume, ha suscitato accanto alla libertà economica e politica anche la libertà spirituale e la tolleranza dell’opposizione.

Lo scopone è la forma di sport delle società arretrate economicamente, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato). Lo sport suscita anche in politica il concetto del «gioco leale». Lo scopone produce i signori che fanno mettere alla porta dal principale l’operaio che nella libera discussione ha osato contraddire il loro pensiero (!?).
di Antonio Gramsci, l’Avanti, 26 agosto 1918

Per lo storico Sergio Giuntini, Gramsci aveva capito come «l’operaio non dovesse occupare il suo tempo libero nelle osterie, dove la piaga dell’alcolismoera tra le più pesanti per la classe operaia, ma dovesse emanciparsi attraverso la partecipazione alle attività sportive più moderne».

La passione di Gramsci per lo sport sarà ancora evidente dalle lettere inviate alla cognata Tatiana Schucht, nelle quali racconta al confino di aver «letto sempre, o quasi, riviste illustrate e giornali sportivi» oppure si lamenta per il mancato recapito in carcere di «qualcosa da leggere, neanche la Gazzetta dello Sport, perchè non ancora prenotata».

Certo poi negli anni cambieranno lo scopone, il calcio, le società, gli operai e pure le libere discussioni. Cambierà col tempo pure il parere di Gramsci, che arriverà a condannare le degenerazioni del tifo. In Problemi della cultura nazionale, uno scritto raccolto nei Quaderni dal carcere, scriverà: “Il tifo sportivo è vecchio almeno come la religione”. In Miscellanea e note sul Risorgimento italiano parla di campanilismi che sono rinati, attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. Accanto al tipo sportivo c’è il tipo campanilistico sportivo”.

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Il tifo stesso è protetto, riservato, quasi segreto.

In una intervista con Pasquale Coccia per il Manifesto di ieri ne ha parlato Aldo Agosti, professore emerito dell’Università di Torino, autore di volumi sulla storia dei movimenti socialista e comunista, tra cui una biografia di Togliatti per Utet (1996), una Storia del Pci per Laterza (1999) e con Giovanni De Luna per Utet di un libro sulla Juventus (2019).

«Fino agli anni ’80 almeno – ha detto – l’appartenenza a una fede calcistica era raramente sbandierata dagli uomini politici di qualsiasi partito, si preferivano tenere separate le due sfere. Tra i comunisti la dichiarazione della propria fede calcistica era ancora più rara: Togliatti prima e Lama poi rappresentarono un’eccezione. Fu nel clima degli anni ’80 che la politica cominciò ad ammiccare allo show business e anche al calcio».

Un’anomalia la sua proclamazione, non il verso del tifo.
I principali leader comunisti sono stati tutti juventini.

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Proprio il Manifesto ieri scriveva che “la grande emigrazione dei meridionali negli anni ’60 verso il Nord, consolidò le tifoserie dell’asse Torino-Milano e quegli operai militanti del PCI che nei cortei degli anni ’70 gridavano Agnelli-Pirelli ladri gemelli non di rado la domenica allo stadio tifavano Juventus, Inter, Milan”.

Secondo il professor Agosti «la scelta della squadra di elezione ha ragioni che possono essere molto soggettive, e quindi poco generalizzabili, oppure avere a che fare con rapporti amicali, tradizioni familiari o locali. Così la fede juventina di Togliatti risale probabilmente al suo passato di studente universitario a Torino, un ambiente nel quale la Juventus vantava numerosi soci e sostenitori. Luciano Lama, invece, si può supporre che fosse juventino prima di tutto perché romagnolo. In ogni caso, credo non sia possibile stabilire un’associazione fra opinioni politiche e tifo calcistico».

In un intervento di qualche anno fa per il Napolista, indagando tra le ragioni del tifo per la Juventus tra gli immigrati meridionali, Vittorio Zambardino dedicava un passaggio alla politica: “Un’altra indagine andrebbe fatta. Perché tra i comunisti c’erano tanti juventini, compreso Togliatti, Luciano Lama, Enrico Berlinguer e – mi pare di ricordare ma non trovo conferme – Giuseppe Di Vittorio. La mia idea è che tra il totalitarismo e la statolatriacomunista e la tua Fede sportiva ci sia un legame profondo, libidico in senso freudiano. Il culto e l’attrazione erotica per il potere invincibile, assoluto. E soprattutto non discutibile”.

Enrico Berlinguer, appunto. Aveva a cuore il Cagliari per ragioni territoriali. Provava simpatia per Tommaso Maestrelli in ragione del suo passato da partigiano. Ma si spinse a confessare il suo tifo per la Juve a Gigi Riva, che lo rivelò anni dopo una trasmissione alla radio.

Un comunista eretico come Pier Paolo Pasolini, su Tempo del 29 novembre 1969, scriveva: “I giornali di sinistra hanno forse paura di criticare Herrera? Forse perché i lavoratori vanno in massa agli stadi? E sarebbe impopolare parlar male di Herrera, come sarebbe impopolare parlar male degli insopportabili cantanti di canzonette che, come il calcio, e peggio, «distraggono dalla rivoluzione»? Io non faccio il moralista a buon mercato. Io infatti vivo la contraddizione dello sport: io ho fatto lo sport, e lo seguo, anche, in qualche modo, ahimé, da tifoso”.

Alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, il Guerin Sportivo pubblicava sue due pagine una tabella nella quale, squadra per squadra, dava conto delle preferenze politiche dei calciatori di serie A e di serie B. Dichiaravano il loro voto per il PCI: De Ponti, Boranga e Festa del Cesena, Orlandini e Landini del Napoli, Vecchi del Cagliari, Tani, Manfredini e Ferradini del Modena, Arrighi del Varese, Catania e Bonci del Genoa, Onofri, Gritti e Lombardi dell’Avellino, Marella e Torchio del Brindisi, Sali e Grilli del Foggia, Daleno della Sambenedettese, Buso, Niccolai e Gregori del Cagliari, Spadoni, Cordova e Morini della Roma, Morello e Zandoli dell’Ascoli. Più a sinistra del PCI, per Democrazia Proletaria, votavano Nasuelli del Novara, Tresoldi del Varese, Sollier e Raffaeli del Perugia, Zecchini della Sampdoria.

Qualche decennio più tardi, Cristiano Lucarelli riporterà tutto a Livorno, la sua città natale, per la quale dichiara un amore ultra-capitalistico, dicendosi disposto a trasferirsi di nuovo là per giocare, a costo di dimezzarsi lo stipendio e scrivendo il libro Tenetevi il miliardo.

JmCI5j3ISgb81zoT4xHhSxbShzKlRF9xsNy7PwCrg_5IBOavAZ8x2TS8y5uzsLQJlByXP-KktEi9BHWK38gaa5Lu_nC7qrTHx13mVPmcGHkT299uGSN_WxDkBed1z4j8FRJh7mp_  Bonimba comunista ➔ «Io non ho mai avuto problemi, nemmeno con Agnelli e Boniperti che certamente non la pensavano allo stesso modo. Non facevo comizi, ma non ho mai nascosto da che parte stavo. E da che parte potevo stare? Mio padre era nel consiglio di fabbrica, alla Burgo. Bastava che facesse un fischio e si fermava il reparto. Aveva perso tre dita sotto una pressa, così in guerra non c’era andato. Ma in fabbrica avevano un bel po’ d’armi nascoste».

Roberto Boninsegna intervistato da Gianni Mura, la Repubblica, 4 novembre 2013

La leggenda di Bartali e Togliatti

hZhrKCKxp8fyeOAnmo6QAj9oWqKaVtb88lwFRmZYlN9j2kX5Q5Zcay6caq_0gr-dvhQYV9qBZ1zgrtpAsZRm6I59s4iaDxDQ2KH-tZaeHbreGOSbTHZZLu6YpUBiKaKXe4Fi-mwZ  letture Giorgio Bocca sulla rivoluzione stoppata ➔ Era un’estate di febbre politica altissima, quella del luglio ’48, in cui arrivò la notizia da fine del mondo dell’attentato a Palmiro Togliatti. A Montecitorio, nell’atrio dell’ingresso di via dalle Missione, uno sconosciuto siciliano di nome Pallante gli aveva sparato quattro colpi di pistola, uno lo colpì alla nuca, un altro alla schiena. Alla notizia l’Italia operaia e comunista si muove senza nemmeno attendere le direttive del partito. Gli operai della Fiat occupano la fabbrica e tengono come ostaggi sedici dirigenti, fra cui il professor Valletta. Il Paese si spacca in due, i comunisti occupano la stazione radio e telefonica del Monte Amiata per la quale passano i collegamenti fra Nord e Sud. Le grandi città del Nord sono occupate mano armata. Allora abitavo vicino alla Gazzetta del Popolo, in corso Valdocco. Alla notizia dell’attentato Torino era stata bloccata dallo sciopero generale. Per via Garibaldi, la strada che porta al centro della città, passavano solo i camion della Fiat requisiti dai rivoltosi. Con un collega della Gazzetta e uno dell’Unità stavamo chiusi in casa. Ogni tanto il collega dell’Unità usciva per andare al giornale a cercar notizie. Noi lo aspettavamo giocando a ramino. C’era con noi anche un vecchio mite correttore di bozze, che non parlava mai. Ma alla notizia che Valletta, il “boss” della Fiat, era stato bloccato, disse laconico: “Cul li venta scurcielu”, quello lì bisogna liquidarlo. Un vecchio mite correttore di bozze: gli imprevisti delle rivoluzioni.

Giocammo a ramino per due giorni, poi la radio diede la notizia che Bartali aveva vinto il tappone delle Alpi al Tour e che era maglia gialla. La città sembrò uscire dal silenzio della paura. Si udirono delle voci, dei clacson, si sentì il rumore allegro delle finestre che si aprivano, della gente che si chiamava da un balcone all’altro. Uscimmo senza aspettare altre notizie. Il bar di via Garibaldi, vicino alla Gazzetta era aperto. Il parrucchiere tifoso del Torino tirava su le saracinesche. Non è vero che la “rivoluzione” rientrò per la vittoria di Ginettaccio: l’ordine di abbandonare i blocchi e i presidi, di far sparire le armi, era già partito il giorno prima, Longo e Secchia avevano già deciso di salvar il salvabile. Ma è vero che l’Italia di colpo tornò quella di prima, come risvegliata da un brutto sogno: quella delle vacanze, delle serate ai bar sport, quella divisa non fra Togliatti e De Gasperi ma fra Bartali e Coppi. L’Italia popolare che non ha mai avuto triadi ma dualismi inconciliabili – o Varzi o Nuvolari, o la Juventus o l’Inter, o la falce e martello o la croce democristiana.
di Giorgio Bocca, la Repubblica, 6 maggio 2000

L’Unità e il racconto dello sport

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«Fin dalla fine degli anni ’40 – racconta Agosti al Manifesto – la cronaca calcistica de l’Unità occupava almeno due pagine dell’edizione del lunedì e rivaleggiava per competenza con quella dei quotidiani indipendenti». La fondazione dell’Unione Italiana Sport Popolare (UISP) è del 1948.

L’anno prima al Giro d’Italia il quotidiano comunista ha per inviato il poeta Alfonso Gatto. Indossa una tuta azzurra, sulla quale porta il nome della testata. “Mai forse nella vita – scrive da Pieve di Cadore – avremo tanti uomini, tante donne, tanti bambini a fare ala al nostro passaggio, noi che non siamo capi di Stato o di governo, generali o cardinali, noi che non siamo rispettati o temuti ma invidiati per la nostra stessa felicità di correre dietro a un sogno”.

Gatto in bicicletta non ci sapeva andare. Da Pescara racconta che Fausto Coppi in persona si offre di insegnarglielo. “Quale onore per me, ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d’Università”. Coppi insiste, la lezione si tiene per davvero e Gatto non riesce a stare in equilibrio. “Tutta la città parla e sparla di me – ancora parole di Gatto – i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare”.

Gianni Mura raccontava di un aneddoto che circolava tra i vecchi suiveur. Dal Tour Alfonso Gatto chiama il giornale e inizia a dettare il suo pezzo a uno stenografo.

«Ha vinto lo spirito», attacca, e quello dall’altra parte del telefono lo interruppe subito: «Che dici, compagno? Ha vinto Coppi».

Se è inventata, è inventata in perfetto stile working class.

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Calvino scrive con la consapevolezza che sta raccontando i Giochi ai lettori dell’organo del PCI.

“È un trionfo dell’America? La stampa americana e quella che ad essa s’ispira fanno di tutto per diffondere quest’idea: levano alte alle stelle le vittorie degli S.U., minimizzano le altre. Ma se dallo Stadio passiamo alle gare ginnastiche, la musica cambia: qui i sovietici (e le sovietiche) fanno strage di medaglie, s’aggiudicano tutti i premi. Dunque, dallo sport coltivato da elementi selezionatissimi, sottoposti a un continuo, rigoroso allenamento, passiamo agli sport di massa, dove i dilettanti sono veri dilettanti, e dove vengono provate l’efficienza e l’estensione delle attrezzature sportive del Paese, la diffusione della pratica sportiva nella gioventù, allora l’America scompare e l’Unione Sovietica ha un vantaggio incontrastato. Cantate pure con contententezza il vostro inno ogni volta che le stelle e le strisce salgono sul pennone: nessuno può negare che il vostro sia un grande popolo, soprattutto quando i millesangui negri e bianchi che fecondano la vostra terra sono in grado, come qui, di farsi valere sullo stesso piano. Ma, vi prego, riflettete un momento: voi sapete come nascono i vostri campioni, i vostri grandi specialisti, saltatori con l’asta, podisti, discoboli; sapete che sono beniamini dei “colleges” universitari dove essi vengono mantenuti, studenti spesso solo di nome, per dare lustro sportivo all’Università e servire d’attrazione pubblicitaria, e dove non hanno altro da fare che allenarsi, migliorare la propria tecnica e il proprio stile, come raffinati virtuosi, frutti di quel compromesso tra cultura, accademia sportiva, industria, che sono gli istituti d’istruzione americani”. Dove 33 anni dopo andrà a tenere le sue Lezioni.

Al suo rientro in Italia, a poche settimane dalla fine dei Giochi, scoprirà che Il visconte dimezzato sta spaccando la critica militante di sinistra e il mondo del PCI. In un articolo firmato da Carlo Salinari, l’Unità stessa – il giornale per cui scrive – ha stroncato il romanzo, definendolo “stucchevole” e “una divagazione letteraria”.

Considera Salinari: “Molti (operai, contadini, intellettuali) forse non leggeranno il Visconte dimezzato. Perché non è scritto per loro”.

RILEGGI
Michele Serra racconta l’esperienza di Cuore Mundial
Slalom 7 giugno 2020

Il tifo dei comunisti italiani per l’URSS

jPdBgR-WaKMz2HVVekHGYXBcQ4TXTT65GjPtr5CWp7FZ9A0OMbblzjj2rVe3p6Y0x078hvTcx6fjYUsGDgvIbawp0s1MPAuLJVXOtRnOefecjJz73-yF44sVo0nCSDi6HIBuVRx2   Ci sono stati comunisti italiani integrali e ortodossi che ai Mondiali di calcio hanno fatto il tifo per l’URSS, trovando peraltro soddisfazione solo parziale tra il 1982 e il 1986, quando non c’era alcun dubbio che Belanov meritasse il Pallone d’oro dopo il grande Blokhin, né sul fatto che Yaremchuk e Yakovenko fossero dei sublimi interpreti mortificati dalla propaganda occidentale a vantaggio del capitalista Platini.

Hanno fatto il tifo alle Olimpiadi per i pugili cubani e per la nazionale di basket di Belov. Hanno sostenuto la superiorità filosofica e morale del salto ventrale di Brumel e Jashenko sul dorsale dell’amerikano Fosbury.

Quattro anni dopo il dibattito su Davis-sì o Davis-no nel Cile di Pinochet, con i compagni cileni che invitano a partire per non lasciar vincere la Coppa al dittatore, quattro anni dopo la maglietta rossa di Panatta a Santiago, i Giochi olimpici di Mosca sono un ulteriore dilemma per il PCI. L’Italia ci va per decisione autonoma del CONI rispetto al governo, ma senza inno né bandiera, nella stessa estate in cui Enrico Berlinguer dice in una intervista con Oriana Fallaci al Corriere della sera: «Se vuole che le dica quel che non va nell’Unione Sovie­tica glielo dico. Un regime politico che non garantisce il pie­no esercizio delle libertà, anzitutto. Il che non è cosa da po­co anzi è la più grave, ed è ciò che ci spinge a cercare una via diversa da quella. Poi gli aspetti che riguardano la vita dello Stato e del partito, la scarsa partecipazione dei lavora­tori alla vita politica del paese. Infine gli interventi militari in Cecoslovacchia e in Afghanistan, entrambi assai gravi… Io le invettive non le lancio contro nessuno, non mi pia­ce scagliare anatemi, gli anatemi sono espressione di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo. Ognuno si porta ad­dosso il fardello delle sue ideologie, le sue religioni, le sue convinzioni, giudica le cose in quella prospettiva e basta, e anche per questo il mondo va male».

A quei Giochi per l’Unità c’è un Giulietto Chiesa quarantenne, il, quale a dispetto del boicottaggio occidentale scrive che “l’Olimpiade c’è, esiste, funziona. Un’organizzazione come questa non si inventa in pochi giorni e nemmeno in quattro anni”. Chiesa celebra l’utilizzo della tecnologia occidentale come il segno di una cambiamento in corso – lui la chiama distensione, molte volte in 15 giorni – e si chiede se queste Olimpiadi così esatte, così giuste, non stiano facendo scivolare in secondo piano l’immagine di un paese primitivo, rurale e arcaico, nonostante “abbiamo visto il conducente del filobus sul quale ci trovavamo, scendere con un cacciavite per eseguire direttamente la riparazione”. Il boicottaggio è il cuore della sua attenzione. “Alla fine, ironia di tutta la vicenda, gli unici ad essere boicottati sono stati gli atleti i cui comitati olimpici hanno ceduto alle pressioni dei rispettivi governi accettando di non venire a Mosca. Tutto il pasticcio — e l’imbroglio — del boicottaggio si è dunque ritorto contro chi lo aveva ideato”. Parla di “occasione perduta” per “un grande incontro che era possibile ed è stato in parte impedito, tra i cittadini di Mosca e una grande quantità di gente che sarebbe venuta a sentire e a parlare, a conoscere e a farsi conoscere meglio. Mosca non era deserta, come è stato scritto. Non era in stato d’assedio né meno «vera» di come lo è solitamente. Privarla di questo incontro ha voluto dire farle un torto”.

La fine del PCI

5ESzci93nSBg3P53oLS6vTGbeyyxnlbpyz-ovvjn5jpc2Dh05WoMXkoKLwetG5XQAhWB1m9NbelC3gHc5y5_J-RPp5MEWoCtteM2X8-LR5npZyCOVjGZKC5BOYnAwEpqby0pWR23   Quando il 3 febbraio del 1991 il PCI delibera il proprio scioglimento promuovendo la nascita del PDS, la rivoluzione la sta facendo nel calcio italiano la Sampdoria di Vialli e Mancini, in testa alla classifica con Inter e Milan, e in viaggio verso il suo scudetto, l’ultimo della stagione della gioia diffusa in serie A (11 squadre da scudetto tra il 1969 e il 1991), prima dei campionati spartiti fra tre soli club dal 1992 in avanti, con l’eccezione delle due romane a cavallo del Giubileo.

La mozione di Achille Occhetto ottiene il 67,46% dei voti. Con il 26,77% delle preferenze l’ala minoritaria fa nascere Rifondazione Comunista con la mozione di Pietro Ingrao, che per il migliorista Giorgio Amendola era quello della “sinistra tennistica”, una specie di epiteto, sprezzante, rivolto alla sua passione per la racchetta, considerata dentro la corrente avversaria del PCI, peraltro riformista, un indizio di snobismo, una tentazione elitaria, distante dalle masse. Ingrao aveva avuto per maestro Alberto Palmieri, ex allenatore anche di Panatta, Barazzutti, Sabina Simmonds, di Giorgio Bassani e Gillo Pontecorvo, di Paolo Villaggio e Giuliano Gemma. Il tennis piaceva anche a Lucio Magri e Luciana Castellina, due ingraiani, appassionati anche di sci, un ulteriore peccato di classe.

La prima Unità post-PCI sarà diretta da Walter Veltroni. Che ristampa gli album delle figurine Panini e li distribuisce il lunedì in allegato, uno a settimana.
Juventino.
Pure lui.

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