Napolitano e il secolo breve del Pci

Cent’anni fa, a Livorno, nasceva il Partito comunista italiano: grande protagonista della vita politica fino al 1989, quando arrivò la “svolta” di Achille Occhetto. Andata in porto anche grazie alla saggezza del futuro presidente, come dimostra una sua lettera di allora.

Il centesimo anniversario della nascita del Partito comunista italiano può essere l’occasione per rileggere con il dovuto distacco una vicenda che è parte integrante della storia italiana e internazionale del secolo scorso. In questo spirito, finalmente affrancato da vecchie dispute risalenti all’epoca (ma ancora oggi influenti), si dovrebbero affrontare momenti e problemi decisivi nell’intero arco dell’esistenza del comunismo italiano, dal Congresso fondativo svoltosi a Livorno nel gennaio 1921 alla sua estinzione dopo la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989.

Il Pci si rappresentò sempre come una forza nazionale e internazionale nello stesso tempo, declinando i due termini in modi assai diversi tra loro nel corso del tempo, ma tenendoli legati assieme nella propria cultura politica. Così fu fino alla fine, quando la maggioranza dei comunisti italiani riconobbe come il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda implicassero un cambiamento della loro stessa identità, malgrado le peculiarità che l’avevano contraddistinta, anche per mettere fine alla “democrazia bloccata” in Italia.

Quel passaggio fu tuttavia quanto mai controverso. Eletto da poco più di un anno nel contesto di un cambio generazionale, il nuovo segretario Achille Occhetto si proponeva di imprimere dinamismo nella politica interna e consolidare la duplice partnership con le socialdemocrazie europee e con il comunismo riformatore di Gorbaciov. Restava aperto il dilemma se tutto ciò si dovesse intendere come un rinnovamento della tradizione comunista o come una sua liquidazione. Il nuovo gruppo dirigente condannò duramente il massacro di Tienanmen e approvò la svolta democratica in Polonia. Al tempo stesso, condivise con Gorbaciov l’idea di una riforma graduale dei paesi dell’Est. Perciò se l’accelerazione che portò alla caduta del Muro fu un evento sorprendente per tutti, a maggior ragione mise in difficoltà i comunisti riformatori.

Occhetto rispose con coraggio, indicando nel celebre discorso alla Bolognina la scelta di un mutamento radicale. Nel giro di pochi giorni, egli ribadì in Direzione e in un infiammato Comitato centrale, a metà novembre, la proposta di sciogliere il Pci e dare vita a una nuova formazione politica. La strada del cambiamento era aperta, ma i caratteri della nuova forza e il percorso per costruirla restavano da definire, specie tenendo conto delle forti resistenze che si manifestarono nel partito.

In questo contesto, la figura di Giorgio Napolitano assunse un ruolo molto importante. Egli era il dirigente più autorevole della vecchia generazione e continuava a ricoprire un ruolo chiave come responsabile della politica estera del partito. Fu subito tra i sostenitori più convinti della “svolta” e il principale fautore di una sua precisa interpretazione, vale a dire un distacco senza riserve dalla tradizione comunista e un’adesione all’Internazionale Socialista. Ciò implicava anche di chiudere l’annoso conflitto con il Psi di Craxi. Napolitano tenne pubblicamente questa linea, insistendo sulla necessità di superare il condizionamento delle rivendicazioni identitarie e ideologiche.
La determinazione iniziale di Occhetto e della nuova generazione sembrava in effetti indebolirsi per effetto delle resistenze interne e delle ricerche di mediazione.

Il 15 dicembre la Direzione del Pci discusse una mozione di maggioranza che profilava una “fase costituente” non meglio definita, lasciando in forse persino il suo esito e provocando le critiche dei “miglioristi”. Napolitano, Macaluso, Chiaromonte e Lama assunsero così il ruolo di difensori della “svolta” nel suo impulso originario, richiamando a esso lo stesso Occhetto.

In un’intervista a Eugenio Scalfari del 17 dicembre, il segretario precisò il percorso da seguire, che prevedeva due congressi da svolgere entro un anno e collocava la conclusione del processo alla fine del 1990. Operò anche una netta distinzione, già compiuta in Direzione, tra il collasso dei regimi comunisti (che non avrebbe toccato il Pci dato il suo rivendicato distacco di lunga data dal mondo socialista) e il crollo del Muro (che segnando la fine della guerra fredda avrebbe aperto le porte a un nuovo ordine mondiale).

Due giorni dopo, Napolitano rilasciò un’intervista all’Unità accogliendo le precisazioni di Occhetto e polemizzando con gli oppositori della “svolta”, che come l’ex segretario Alessandro Natta insistevano sul comunismo quale idealità, senza tenere conto del fatto che il termine si era identificato largamente con i regimi di tipo sovietico in tutto il mondo. Il sostegno di Napolitano al segretario fu assai netto, anche se le sue argomentazioni negavano la possibilità stessa di distinguere tra il collasso dei regimi comunisti e il crollo del Muro. A suo giudizio, i due elementi erano indissolubili e a partire da questo nesso il Pci avrebbe dovuto definire il proprio cambiamento.

Quello stesso giorno, il 19 dicembre, Napolitano scrisse a Occhetto un vero e proprio promemoria che ci appare un documento di notevole rilievo storico. La lettera aveva il senso di consolidare il percorso della “svolta” ed evitare una sua neutralizzazione, in vista del Comitato centrale previsto il 21 dicembre. Secondo ogni evidenza, Napolitano riteneva che tale rischio fosse ancora elevato. Egli insisteva infatti sulla necessità di evitare formule ipotetiche e, sulla base degli esiti del congresso previsto per il marzo 1990, procedere alla costruzione di un nuovo soggetto discutendone i fondamenti in una conferenza programmatica che riteneva la sola “tappa essenziale”. Chiedeva di prevedere un mandato alla Direzione per discutere con l’Internazionale Socialista il modo di stabilire un “rapporto organico”. E auspicava di abbozzare una definizione della nuova formazione politica, che si collocasse nel solco delle tradizioni della sinistra italiana. Napolitano avanzava esplicitamente la proposta di una gestione unitaria dell’intero processo, sottolineando “l’estrema importanza” che attribuiva a “un impegno solidale di “maggioranza””.

Alla luce del documento, ci appare più chiara l’impostazione del Comitato centrale che due giorni dopo varò definitivamente la trasformazione del Pci. Questa fu il risultato di un’interazione tra Occhetto e Napolitano, tra la nuova generazione e i “riformisti”, destinata a dare l’impronta al congresso del marzo 1990.
In altre parole, senza nulla togliere al posto centrale di Occhetto nella svolta del 1989, Napolitano giocò un ruolo essenziale per evitare che quel processo si impantanasse.

Le due componenti della maggioranza allora creatasi dovevano invece dividersi circa la natura del progetto, al momento della “fase costituente”. Occhetto e i dirigenti più giovani respinsero la visione di Napolitano, orientata dall’idea di una ricomposizione nella storia del socialismo in Italia come in Europa, per fondare un soggetto politico “di sinistra”, che si proponeva di fuoriuscire dalle tradizioni del secolo e cercare una nuova identità.

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